Uno dei concetti più conosciuti dell’opera di Karl Marx e Friedrich Engels è il concetto di ‘alienazione’ che viene fuori dall’analisi che gli autori fecero del loro periodo storico che vedeva l’espandersi dell’industrializzazione nel passaggio e superamento della produzione artigianale, producendo quel fenomeno sociale descritto come proletariato e la relativa forma di alienazione che derivava dalla separazione fra la produzione e la proprietà (l’operaio produce beni che non gli appartengono), questo fa sì che il frutto del proprio lavoro è nelle mani del capitalista, ciò rende la produzione non libera (come quella dell’artigiano) e di conseguenza limita la creatività, rendendo il lavoro ripetitivo (produzione di massa) che vanifica ogni suo sforzo riportandolo sempre allo stesso punto di partenza dopo aver terminato il ciclo di lavoro (Marx userà come esempio il mito di Sisifo). Anche se il più evidente effetto di alienazione Marx lo rileva nel rapporto fra operaio e capitalista e nel relativo rapporto di sfruttamento finalizzato al profitto.

Karl Marx (1818-1883)


Ma sarà invece Herbert Marcuse ad estendere il concetto di alienazione oltre il rapporto capitalistico di produzione alla società industriale e tecnologica in sé. Nel suo ‘L’uomo a una dimensione’1 Marcuse rileva come l’alienazione nasca dalla mancata realizzazione di sé dovuta alle regole esterne imposte dalla società ‘industriale’, a cui non sono soggetti solo gli operai, ma l’intera filiera produttiva, che si comporta come un enorme ingranaggio, composto da regole, al quale l’uomo non può sfuggire e che non lasciandogli margini di libertà lo rende asservito a regole che lo schiacciano rendendolo soggetto alla legge di necessità, senza più libertà, così come chiaramente indicato nell’incipit del primo capitolo della sua opera:


Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata, segno di progresso tecnico2

Ed è una vera sorpresa trovare verso la fine del volume di Hans Küng ‘Essere Cristiani’3 un paragrafo dall’anonimo titolo “Ciò che in definitiva non conta”4 in cui l’analisi dell’alienazione viene ulteriormente sviluppata, ma, entrando maggiormente nel cuore della sua essenza contemporanea dove l’autore riesce a cogliere il tratto essenziale dell’alienazione non nel rapporto viziato proletario-capitalista come inteso da Marx ed Hengels, né nel rapporto succube delle regole che lo rendono soggetto alla legge di necessità come inteso da Marcuse, ma attraverso la lettura del tanto criticato volume di Max Weber ‘L’etica protestante e lo spirito del capitalismo’5 seppur rimanendo fuori dalla linea di ricerca weberiana, comunque da esso prendendo spunto per trovare una legge che forse era sottesa in maniera inconsapevole nel testo di Weber, e che sembra essere abbozzata proprio nelle parole finali del testo di Weber quando dice:

«In ogni caso il capitalismo vittorioso non ha più bisogno di questo sostegno, da quando poggia su una base meccanica. Sembra che impallidisca definitivamente anche la rosea psicologia della sua ridente erede – della cultura illuministica –, e come uno spettro di contenuti religiosi di una fede passata si aggira, nella nostra vita, il pensiero del «dovere professionale». Dove l’«adempimento del dovere professionale» non può essere messo direttamente in rapporto con i sommi valori spirituali della civiltà e cultura – o, viceversa: anche sul piano soggettivo non deve essere sentito semplicemente come una coazione economica –, oggi l’individuo per lo più rinuncia comunque a interpretarlo. Nel paese dove si è sommamente scatenata, negli Stati Uniti, la ricerca del profitto si è spogliata del suo senso etico-religioso, e oggi tende ad associarsi con passioni puramente agonali, competitive, che non di rado le conferiscono addirittura il carattere dello sport.»6

Quelle parole finali come “agonali” e “competitive” sembrano aver dato lo spunto a Küng per oltrepassare lo studio di Weber con la sua teoria delle “prestazioni personali” che sono ormai dilaganti nel mondo globalizzato dell’economia e della finanza dei nostri tempi.

Ma lasciamo dire all’autore:

«Nella vita moderna contano i risultati che si conseguono. Non si domanda tanto: «Chi è il tale?», quanto piuttosto: «Che cosa fa?», con ciò intendendo la sua professione, il suo lavoro, le sue realizzazioni, la posizione che occupa e il prestigio di cui gode nella società. È questo che conta. Si tratta di una problematica meno ovvia di quanto non sembri.
Tipicamente «occidentale» sebbene oggi interessi anche i paesi socialisti del blocco orientale (Secondo Mondo) e i paesi in via di sviluppo del Terzo Mondo, ha il suo «humus» originario in quel Primo Mondo (Europa Occidentale e America Settentrionale) dove si è sviluppata la moderna società industriale. Soltanto qui esisteva da tempo una scienza razionalmente organizzata con esperti altamente specializzati. Soltanto qui un lavoro razionalmente organizzato in libere imprese sulla base della produttività. Soltanto qui una vera e propria borghesia e una razionalizzazione specifica dell’economia e della stessa società in generale secondo una nuova mentalità economica. Perché mai soltanto qui? Nella sua classica analisi, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1905), da noi già citata, Max Weber ha indagato a fondo questo processo: La razionalizzazione occidentale venne senz’altro stimolata da determinate condizioni economiche (fin qui aveva ragione Marx). Tuttavia (osserva giustamente Weber) non si sarebbe giunti alla razionalizzazione economica occidentale senza una nuova mentalità economica spiccatamente razionale-pratica, radicata in un ben preciso costume religioso: Furono precisi contenuti di fede e precise concezioni del dovere a generare e introdurre decisamente questo nuovo spirito nella vita e nell’economia. In che modo? Le radici del fenomeno risalgono – fatto abbastanza sorprendente – a quei problemi del tempo della Riforma che oggi si dice non siano più attuali: Applicando con involontaria coerenza la rigida dottrina calvinistica di una duplice elezione (predestinazione degli uni alla beatitudine, degli altri alla dannazione), si sottolineò nelle Chiese influenzate da Calvino il valore della «santificazione», delle opere nella vita quotidiana, del lavoro professionale come compimento dell’amore del prossimo, nonché il valore del successo di questa attività – il tutto inteso come segno visibile di una positiva elezione alla beatitudine eterna. Fu quindi per motivi religiosi, non razionali, che maturò lo spirito del lavoro assiduo, del successo professionale e del progresso economico: un connubio gravido di conseguenze tra un’intensa religiosità e un senso capitalistico degli affari, rinvenibile in Chiese e sette storicamente importanti, presso i puritani inglesi, scozzesi e americani, tra gli ugonotti francesi, nelle comunità tedesche dei riformatori e dei pietisti.
Quanto più la secolarizzazione si estese ai vari ambiti della vita e quanto più si affermò il sistema economico moderno, tanto più assursero a virtù dell’uomo secolare, dell’uomo responsabile e autonomo operante nella «società industriale», l’attività infaticabile («industria»), la disciplina severa e l’elevato senso di responsabilità. L’«abilità»in tutti i campi divenne la virtù per eccellenza, l’«utilità» il criterio dominante, il «successo» l’obiettivo finale, la «produzione» la legge di questa moderna società della produttività, in cui ciascuno è chiamato a svolgere un suo ruolo particolare (ruolo principale nella professione e per lo più svariaci ruoli secondari).”
L’uomo cerca così, in un mondo e in una società che si sviluppano dinamicamente, di realizzare sé stesso: Diversamente da quanto avveniva nello statico mondo preindustriale, l’auto-realizzazione umana, che resta in ogni caso un traguardo dell’uomo, si fonda su prestazioni personali. Si realizza solo chi realizza qualcosa.
E non c’è rimprovero più amaro del sentirsi rinfacciare che non si combina nulla. Lavoro, carriera, guadagno: che cosa ci potrebbe essere di più importante? Industrializzare, produrre, espandersi, consumare a tutti i livelli; sviluppo, progresso, perfezione, miglioramento del tenore di vita sotto ogni possibile rispetto: non è questo il senso della vita? Come giustificare la propria esistenza se non mediante prestazioni personali? I valori economici occupano il vertice della gerarchia dei valori umani, la professione e le capacità professionali determinano lo status sociale, la tensione verso la prosperità e la produzione fa sì che i paesi industriali sfuggano alla stretta di una povertà ancestrale e diano vita a è l’odierna società del benessere. Ma proprio questa mentalità produttivistica, avallata da tanti successi, costituisce in definitiva una seria minaccia per l’umanità dell’uomo: uomo che corre il rischio non solo di perdere di vista i valori più alti e il senso generale della vita, ma anche di essere stritolato dai meccanismi, dalle tecniche, dalle forze e dalle organizzazioni anonime che formano il tessuto di questo sistema. Quanto maggiori sono il progresso e la perfezione tecnologica, tanto più accentuato è l’inquadramento dell’uomo nel complicato processo economico-sociale: Una disciplina sempre più rigida stringe l’uomo nella propria morsa. Un’operosità e un impegno sempre più esasperati non gli permettono di recuperare sé stesso. Responsabilità sempre più vaste convogliano tutte le sue energie verso l’espletamento dei suoi compiti professionali. Le maglie sempre più strette della rete di norme tessuta dalla stessa società lo avviluppano e condizionano implacabilmente non solo nella sua professione e nel suo lavoro, ma anche nel suo tempo libero, nei suoi svaghi, nelle sue vacanze e nei suoi viaggi. Il traffico di una qualsiasi città, con migliaia di divieti, obblighi, segnali, cartelli indicatori (tutto un codice di cui in passato non c’era bisogno e a cui ora ci si deve scrupolosamente attenere se si vuole sopravvivere), è uno specchio fedele di questa moderna vita quotidiana, da mattino a sera organizzata, disciplinata, burocratizzata e presto anche computerizzata. In tutti i settori della vita umana dilaga un nuovo legalismo secolare tale da eccedere la competenza del singolo giurista e da fare impallidire, al confronto, il legalismo (religioso) veterotestamentario e l’ermeneutica degli interpreti di quel diritto.
Quanto più l’uomo soggiace alle regole di questo legalismo, tanto maggiore risulta la sua perdita di spontaneità, di iniziativa, di autonomia, tanto più ristretto si fa il margine residuo per il dispiegarsi della sua umanità. Sovente si ha la sensazione che siano gli uomini a esistere in funzione delle leggi (paragrafi, disposizioni, norme d’azione e di costume), non le leggi in funzione degli uomini. E quanto più l’uomo si smarrisce in questa ragnatela di sollecitazioni, istruzioni, disposizioni e controlli, tanto più tenacemente vi si aggrappa per sentirsene in qualche modo confermato. La vita intera si riduce a una «competizione» estenuante e logorante, scandita da continui controlli della propria efficienza: dal campo professionale a quello sessuale la sola preoccupazione è quella di non veder calare il proprio rendimento, anzi possibilmente di elevarlo. Si è prigionieri, in sostanza, di un circolo micidiale: le prestazioni creano condizionamenti ai quali si crede di poter sfuggire con nuove prestazioni, mentre il tutto si risolve in una grande perdita di libertà.
L’uomo sperimenta così in versione moderna quella che Paolo definì la maledizione della legge: La vita moderna obbliga l’uomo a produrre, progredire, ottenere successo. Nella sua esistenza egli deve continuamente giustificarsi: non più, come in passato, davanti al tribunale di Dio, ma davanti al tribunale del suo ambiente, di fronte alla società e di fronte a sé stesso. E in questa società della produttività e del rendimento ci si può giustificare solo mediante la propria produttività, il proprio rendimento: è solo in virtù delle prestazioni personali che si è qualcuno, che si conserva il proprio posto nella società, che si acquisisce il necessario prestigio. Ci si può affermare solo documentando la propria efficienza.
Il pericolo che l’uomo, sotto l’enorme pressione di un obbligo che diventa una nevrosi, delle aspettative che il suo ruolo suscita nell’ambiente circostante e di una concorrenza che minaccia di travolgerlo, si lasci dirigere solo dall’esterno, il pericolo che, assorbito dal suo ruolo, perda la propria identità, è concreto: L’uomo rischia di essere ormai solo un manager, un businessman, uno scienziato, un funzionario, un tecnico, un lavoratore, un professionista e non più… un uomo! «Diffusione di identità» (E.H. Erikson) nei diversi ruoli, e quindi crisi e perdita di identità: l’uomo non è più sé stesso, è vittima di un’alienazione. Dovendo imporsi con le proprie forze, contro gli altri e perciò a spese degli altri, vive in sostanza per sé solo e di tutti gli altri non si serve che per i suoi fini personali.
Quello che ci si chiede è se per questa via l’uomo possa diventare felice. Se gli altri si lasceranno sfruttare e strumentalizzare in questo modo. Se egli, obbedendo alla legge della prestazione, sia in grado di rispondere a tutte le sollecitazioni che gli vengono continuamente trasmesse. E soprattutto: Se egli possa realmente giustificare la sua esistenza mediante le sue prestazioni. Se con ciò non giustifichi in fondo soltanto il ruolo o i ruoli che è chiamato a svolgere, ma non il suo essere. Se sia realmente quello che è nel suo agire. Si può essere eccellenti manager, scienziati, funzionari o tecnici specializzati, si può svolgere il proprio ruolo in maniera unanimemente giudicata superlativa, e tuttavia fallire miseramente come uomini: Si gira in orbita intorno a sé stessi senza scendere dentro sé stessi. Non ci si accorge neppure che in tutte le proprie prestazioni ci si è perduti, che ci si dovrebbe ritrovare e che non ci si potrà ritrovare se non rientrando in sé stessi. Non è certo con tutte le sue realizzazioni, con tutto il suo agire che l’uomo conquista il suo essere, la sua identità, la sua libertà, la sua personalità, il senso della sua esistenza e la conferma del suo io. Chi mira solo a confermare, a giustificare sé stesso, imposta la sua vita in modo radicalmente sbagliato. Viene in mente il detto evangelico: Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà. E tuttavia, che altro resta se non tentare di confermarsi, di giustificarsi sulla base delle proprie prestazioni?
C’è anche un’altra via. E non è quella dell’inerzia. Né quella dell’aprioristica rinuncia alla prestazione o della repentina abdicazione al proprio ruolo nella società. Si tratta di prendere coscienza del fatto che l’uomo non si esaurisce nella sua professione e nel suo lavoro, che la persona trascende il suo ruolo, che, buone o cattive, le prestazioni sono senz’altro importanti, ma non determinanti. In breve: si tratta di rendersi conto che in definitiva non sono le prestazioni quelle che contano.
»7

1Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1999

2Idem, p.15

3Hans Küng, Essere Cristiani, CDE su licenza Arnaldo Mondadori, Milano 1976

4Idem, p.666

5Max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, BUR Rizzoli, Milano 2011

6Idem, p.221

7Hans Küng, Essere Cristiani, op. Cit., pp. 666-670


«La Bibbia è una risposta all’interrogativo supremo: che cosa richiede Dio da parte nostra? Ma l’interrogativo è uscito dal mondo. Dio viene rappresentato come qualcosa di indistinto, che si nasconde dietro un velo di enigmi, e la sua voce è divenuta estranea alla nostra mente, al nostro cuore, alla nostra anima. Abbiamo imparato a prestare ascolto ad ogni nostro “io”, tranne che all’io del Signore. L’uomo del nostro tempo può dichiarare orgogliosamente: nessuna cosa animale mi è aliena, ma ogni cosa divina lo è. Questa è la condizione della Bibbia nella vita moderna: essa è una risposta sublime, ma noi non conosciamo più la domanda. Se non ritroviamo la domanda, non vi è speranza di comprendere la Bibbia.»

(Abraham Heschel, Dio alla ricerca dell’uomo, Torino 1969, pp.190-191)


Nel nostro lessico quotidiano ci capita con una certa frequenza di usare il termine ‘persona’, spesso per indicare qualcuno che non conosciamo chiamandolo con un generico ‘una persona’ o ‘quella persona’ altre volte per indicare una quantità indefinita dicendo ‘diverse persone’ o ‘delle persone’.

Nonostante l’uso che abitualmente facciamo del termine ‘persona’ nella quotidianità, questo termine è portatore di una profondità di significato che va oltre il nostro lessico quotidiano.

Come ben sottolinea Robert Spaemann:

«Il termine «persona» non è un’espressione sortale, con la quale noi indichiamo qualcosa come così-e-così rendendola in tal modo identificabile. Alla domanda: «questo cosè?» non rispondiamo «questa è una persona» nello stesso modo in cui potremmo dire «questo è un uomo» o «questa è una lampada». Noi dovremmo sapere già prima se questo è un uomo o una lampada per poter sapere se è una persona. Il concetto di persona non serve a identificare qualcosa in quanto qualcosa, ma asserisce qualcosa circa qualcosa, che è già un determinato essere così-e-così. Tuttavia, non si tratta nemmeno di un predicato, che assegna a qualcosa di già qualificato nella sua specie una determinata qualità aggiuntiva. Non esiste nessuna qualità che voglia dire «essere persona»»1

Ecco che con queste parole Spaemann ci introduce già un ambito ben preciso verso il quale indirizzare la nostra analisi, ovvero l’uomo, inteso nel suo concetto biologico, che è l’unico al quale associamo la parola persona, ma l’autore ci avverte anche che tale parola non indica un semplice predicato, deriva da una o più qualità particolari che aggiungiamo all’uomo? Ci chiediamo allora con Spaemann

Giorgio de Chirico
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Enzo Biagi: «Il più povero di tutti chi è?»

Guy Polhemus: «I più poveri sono quelli che attribuiscono valore alle cose sbagliate, che ritengono importanti cose prive di valore, quelli sono i veri poveri»

(Enzo Biagi, Signore resta con noi, Rai 2001)

In questo breve dialogo del 2011, in cui Enzo Biagi racconta la povertà nascosta fra le strade di New York con i suoi homeless (senzatetto), si racchiude una delle più grandi verità che penetra nel cuore della domanda come una lama che taglia di netto ciò che è da ciò che non è: chi è il più povero di tutti?
Tutte le definizioni date della più povera delle povertà soccombono alla tagliente precisione della definizione proposta da Guy Polhemus, le povertà di cui si parla spesso sono solo povertà temporanee.
La povertà di cui tanto si parla ed a cui ci si è sempre riferiti, non ha un valore assoluto, non è uno stato dell’essere sociale assoluto, ma lo diviene se conseguente ad un (altro…)


Come se strenge u core
acchiamendanne u mare
a l’ore c’au marnare
ascenne a pezzecà;

acquanne drete a Specchie
u vrespe, chiane chiane,
se stenne e va lendane
la lusce a termendà;

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Quello che segue è un testo pensato e scritto da Pierre Teilhard de Chardin tra metà agosto del 1918, mentre era coinvolto nelle operazioni militari del suo reparto nella zona della foresta di Laigue,dove i francesi erano impegnati in una offensiva contro i tedeschi che arretravano lasciando la città di Lassigny, offensiva incominciata nella prima metà di quell’anno in cui l’apporto di truppe fresche americane aveva cambiato l’atteggiamento delle forze alleate da difensivo ad offensivo(1), e la fine di settembre sempre del 1918, mentre era arrivato a circa 400 chilometri a sud est a Chavannes-sur-l’Étang nel dipartimento dell’Alto Reno nella regione del Grand Est.

Teilhard War 1915-1918

Teilhard a Verdun nel 1916

Lo scritto completo a cui più volte accenna nelle sue lettere del periodo fra queste due date alla cugina Marguerite Teillard-Chambon, scrittrice sotto lo pseudonimo di Claude Aragonnès,ha titolo ‘La Fede che Opera’(2), è pensato e steso su carta in questo periodo partendo da alcune sue considerazioni sul rapporto tra fede ed avvenire che sorgono sulla base di una sensazione di aver

«sentito più da vicino l’”ombra della morte”, e il terribile dono dell’esistenza: cammino  inarrestabile verso una fine che non si può eludere, stato da cui si esce solo con il    disfacimento fisico… Credo di non avere mai sentito questo così concretamente… Ho    capito un po’ meglio l’angoscia di NS, il Giovedì Santo.. E mi è apparso sempre più chiaro  il rimedio, che è sempre lo stesso: abbandonarci con fede ed amore all’avvenire [al divenire] divino che è “il più reale,” “il più vivo,” e il cui attributo più temibile è di essere il più rinnovante(e quindi il più creativo e il più prezioso). Ma è ben difficile gettarsi nell’avvenire. Invincibilmente la nostra sensibilità vi scorge un vuoto vertiginoso, un gorgo profondo… Dev’essere la fede a rendere saldo il terreno sotto i nostri piedi. Preghiamo l’un per l’altro…»(3)

Ed in una successiva lettera del 29 settembre 1918, dove comunica la stesura e trascrizione in bella copia dello scritto confessa: (altro…)


Sun in an Empty Room

Edward Hopper

 

I would to be the sky,
‘couse I could cover your head
I would to be the earth
so you could walk sure on me
I would to be the sea
for hug you with my vastness
But I’m only a man
the only thing I can do
is to love you forever.


Questa che presentiamo qui è una nota presente su uno dei diari che Pierre Teilhard de Chardin aveva l’abitudine di compilare quasi quotidianamente, nei quali riversava le sue idee sia per i progetti che sarebbero diventati successivamente i suoi scritti, ma anche il suo sentire quotidiano, le sue impressioni i suoi stati d’animo. Vi sono omessi i riferimenti ai nomi di persona, lasciati come semplici sigle. Bisogna ricordare che in questo periodo siamo in piena I Guerra Mondiale, la Francia è già impegnata e Pierre Teilhard de Chardin è caporale barelliere del 4° fucilieri misti zuavi, I compagnia, avendo rifiutato il posto privilegiato da ufficiale come cappellano militare. Ecco il testo:

journal

22 marzo

Ieri mi sono sentito alle prese con una complessità di sentimenti diversi che, in senso diverso, tendevano a rattristarmi: la malattia indubbiamente incurabile della zia E., la notizia che P.P.B., N. erano a Verdun, – che F. era un combattente, esponente del servizio postale militare, che era impegnato in lavori avviati per raggruppare i soldati, etc., – Dolore di fronte a una tristezza familiare che ha messo fine al declino di un passato così gioioso, gelosia quando mi sono reso conto di appartenere alla categoria delle persone meno interessanti, rimpianto irritato per il poco apostolato che avevo potuto esercitare e avversione disgustata per il ministero degli altri, … questi sono stati i principali sentimenti che ho potuto vedere nel profondo della mia anima. – E ora tutti questi venti di depressione e tempeste si sono sciolti in un grande slancio nell’amore per la Volontà di Dio che ci avvolge e ci porta via: a volte per l’implacabile evoluzione dei mali naturali, a volte per le delusioni del destino, a volte per le inferiorità della nostra natura…

Quando la pace sarà tornata, sarà ancora possibile mantenere la pienezza della guerra e la sua serenità di fronte a piccoli interessi individuali, purché si mantenga la visione dell’opera dell’evoluzione organica e della lotta per lo sviluppo totale che si impone senza sforzo alla vita in trincea.
Nello studio introspettivo… fare una gran parte del lavoro e dei germi della disorganizzazione in noi.
Dire che il mio studio non è una discussione, un’apologia: ma una dichiarazione di punti di vista, dove solo uno sarà condannato: il ritorno agli strati bassi … [41]
Un titolo: «La Santa Evoluzione». (o Evoluzione, il Sacro Progresso).

(Ns. traduzione da: Pierre Teilhard de Chardin, Journal 26 août 1915 – 4 janvier 1919, Librairie Artthème Fayard, 1975, p.66)


Il 21 Marzo di 97 anni fa, nel 1923 veniva presentata alla seduta della Société d’Anthropologie  questa breve comunicazione di Pierre Teilhard de Chardin che si accingeva a partire per la sua prima spedizione in Cina. Ecco il testo:

teilhard-paleontologo300

Questa legge non è peculiare della paleontologia. Anzi, è costantemente presupposta o verificata in tutte le scienze che si occupano di realtà fisiche(sociologia, linguistica, fisica…) e viene applicata ovunque vi sia eredità. Infatti, dal momento che un essere immagazzina qualche traccia di ogni fase del proprio sviluppo, esso diventa incapace, per costruzione, di ritornare esattamente a uno qualsiasi dei suoi stati anteriori.

In teoria, l’esistenza della legge d’irreversibilità sembra dunque incontestabile. In pratica, il suo uso è assai delicato in quanto l’irreversione (a priori indubitabile) può essere difficile da costatare, soprattutto allorché si tratta di tipi o di stati semplici, tra i quali la convergenza può facilmente essere scambiata per un’identità. (altro…)


 

18 novembre 2017

di Flavia Grossi

papa-francesco-pccL’Assemblea Plenaria del Pontificio Consiglio della Cultura ha approvato a larga maggioranza una proposta da far giungere a Papa Francesco, in cui si chiede di contemplare se sia possibile rimuovere il Monitum della Sacra Congregazione del Sant’Uffizio sulle opere di P. Pierre Teilhard de Chardin, S.J.
La petizione è stata approvata sabato 18 novembre durante i lavori dell’Assemblea riunitasi sul tema Il futuro dell’umanità: nuove sfide all’antropologia. La proposta, come rilanciato dal quotidiano online S.I.R., è motivata così: “Riteniamo che un tale atto non solo riabiliterebbe lo sforzo genuino del pio gesuita nel tentativo di riconciliare la visione scientifica dell’universo con l’escatologia cristiana, ma rappresenterebbe anche un formidabile stimolo per tutti i teologi e scienziati di buona volontà a collaborare nella costruzione di un modello antropologico cristiano che, seguendo le indicazioni dell’Enciclica Laudato Si’, si collochi naturalmente nella meravigliosa trama del cosmo”.
Papa Francesco potrebbe ricevere la proposta nei prossimi giorni e questa si troverebbe in linea anche con il suo discorso pronunciato durante l’Assemblea Plenaria in cui ha auspicato un «maggiore dialogo anche tra la Chiesa, comunità dei credenti, e la comunità scientifica». Pierre Teilhard de Chardin non è certo figura nuova per il Papa che lo ha citato in una nota dell’Enciclica Laudato si’ (cf. n. 83) cogliendone il contributo positivo a un cristocentrismo di respiro cosmico. Noto per l’alto valore apologetico della sua opera, soprattutto in ambito scientifico, considerato da molti un pioniere nell’analisi dell’evoluzione biologica alla luce della fede, Teilhard fu oggetto di disposizioni disciplinari da parte della Congregazione dei Gesuiti negli anni ’20 del secolo scorso e di un Monitum da parte dell’allora Congregazione del Sant’Uffizio.
Il Monitum arrivò il 30 giugno 1962, 7 anni dopo la morte del Gesuita. Nel teilhard-paleontologo300documento, di una decina di righe, si spiegava che i suoi testi di carattere teologico e filosofico contenevano gravi errori per la dottrina cattolica. Non furono indicati però titoli o argomenti di riferimento. Le opere di Teilhard de Chardin erano state pubblicate da pochissimo tempo, infatti videro la luce solo dopo la sua morte avvenuta a New York nel 1955 ed ottennero un’inattesa risonanza. Fu allora che il Sant’Uffizio decise di imporre il Monitum. Monitum che arrivò molti anni dopo le sanzioni disciplinari da parte dei suoi superiori che comprendevano la sospensione dall’insegnamento di materie di carattere filosofico-teologico negli studentati gesuiti, nonché il divieto di pubblicare saggi su questi temi. Tutto nacque da alcuni appunti del 1922 che Teilhard preparò su richiesta di un confratello e nei quali espose una visione del peccato originale e dello stato di natura primitiva dei progenitori, ritenuta non conforme alla comprensione dogmatica dell’epoca. Gli appunti, pur se non destinati alla pubblicazione, furono inviati al Sant’Uffizio, che chiese ai suoi superiori di formalizzare un intervento nei riguardi del gesuita francese. Nacquero così i provvedimenti disciplinari e una successiva diffidenza verso le opere di Teilhard, che durò per tutta la sua vita. Nel 1927 e nel 1940 inviò alla Curia Generalizia dei Gesuiti a Roma due opere per l’approvazione ma furono entrambe respinte. Teilhard continuò a scrivere e i suoi testi circolarono per lo più privatamente nella sua cerchia di amici, fino alla sua morte quando i suoi manoscritti vennero dati alle stampe.
Dopo il Monitum del 1962, diversi autori hanno sottolineato l’importanza del suo lavoro, soprattutto da un punto di vista apologetico e per l’ispirazione che ha saputo portare agli interrogativi di tanti uomini di scienza. Un esempio su tutti è quello di Theodosius Dobzhansky, uno dei padri della teoria dell’evoluzione biologica che ha fatto sue le tesi del paleontologo gesuita dedicandogli l’ultimo capitolo del suo libro di riflessioni filosofiche sulla vita The Biology of Ultimate Concern.
Non sono mancati apprezzamenti dal lato ecclesiale. Poco prima del Monitum fu pubblicato il volume del teologo Henri De Lubac, Il pensiero religioso del Padre Teilhard de Chardin, in cui si offrono le chiavi per un’ermeneutica attenta al pensiero dell’autore. Papa Paolo VI, pochi anni dopo il Monitum, in un discorso sulle relazioni fra scienza e fede del 1966, parlò di Teilhard come di uno scienziato che aveva saputo, scrutando la materia, trovare lo spirito, e che aveva dato una spiegazione dell’universo capace di rivelare in esso la presenza di Dio, la traccia di un Principio Intelligente e Creatore (cfr. Allocuzione , 24.2.1966, Insegnamenti , IV (1966), pp. 992-993). Altre menzioni positive su quest’autore si riscontrano nel 1981, in occasione del centenario della sua nascita, in due lettere: una di Padre Arrupe, Superiore Generale della Compagnia di Gesù e un’altra dell’allora Segretario di Stato Agostino Casaroli, scritta a nome di Giovanni Paolo II e indirizzata all’allora Rettore dell’Institute Catholique di Parigi mons. Paul Poupard. Infine, nella enciclica Laudato si’ (2015), papa Francesco cita Teilhard de Chardin alla nota n. 53 , nel n. 83 del documento, a proposito dell’idea, certamente presente nel pensiero del gesuita francese, che «il traguardo del cammino dell’universo è nella pienezza di Dio, che è stata già raggiunta da Cristo risorto, fulcro della maturazione universale».

FONTE: http://www.disf.org/

 


17 novembre 2017 @ 17:38

La proposta di una petizione a Papa Francesco “perché voglia contemplare la possibilità di rimuovere il Monitum che dal 1962 è stato imposto sugli scritti di P. Pierre Teilhard de Chardin, S.J., dalla Sacra Congregazione del Sant’Ufficio”. La proposta – ancora in discussione e in fase di valutazione – è stata avanzata nel corso dei lavori dell’assemblea plenaria del Pontificio Consiglio della cultura sul tema “Il futuro dell’umanità: nuove sfide all’antropologia”.che si concludono domani con l’udienza pontificia. “Riteniamo che un tale atto non solo riabiliterebbe lo sforzo genuino del pio gesuita nel tentativo di riconciliare la visione scientifica dell’universo con l’escatologia cristiana – si legge tra l’altro nella petizione -, ma rappresenterebbe anche un formidabile stimolo per tutti i teologi e scienziati di buona volontà a collaborare nella costruzione di un modello antropologico cristiano che, seguendo le indicazioni dell’Enciclica Laudato Si’, si collochi naturalmente nella meravigliosa trama del cosmo”.

FONTE: https://agensir.it

 


Silence-Ho scritto una canzone
che nessuno ha mai ascoltato
non vi sono note
che riescano ad accompagnarla
non vi sono labbra
che riescano a cantarla
solo corde che vibrano
sottese da un cuore
che pulsa
è una canzone
è l’ Amore


20170729_114940-1

In your eyes,
I’ve breathe
In your eyes,
I’ve life
In your eyes,
I loved
In your eyes,
I’ve seen the freedom
For your freedom I’ve lost you.


SCARICA LOCANDINA: Locandina_BERTI Università

 

SCARICA LOCANDINA: loc Berti primavera filosofica

 

 

 


Voglio credere
in un universo perfetto,
in un mondo giusto .
Voglio credere
nella vita, dopo la morte ;
che la nascita è solo
un cambiamento di stato .
Voglio credere
nell’ Amore, che governa il mondo .
Ma perché devo vivere ?!


 

the-pilgrimTi guardo,
ma non ti vedo
Ti ascolto,
e non ti sento
Ti cerco,
mai ti trovo.
Nasco,
e sono morto,
muoio………Sarò Vivo !


‘Silence’ un titolo che già anticipa il contenuto del nuovo film di Martin Scorsese, tratto dal romanzo ‘Chinmoku’ (Silenzio), scritto nel 1966 dell’ autore giapponese Shūsaku Endō. Il romanzo è ambientato nel Giappone del XVII secolo, epoca in cui lo Shogun era l’autorità politica più importante e gestiva il territorio attraverso i daimyō, una sorta di governatori locali. La società era fortemente gerarchizzata, i gruppi si distinguevano fra samurai, nella posizione più alta della scala gerarchica, poi contadini, artigiani e mercanti.
Nel 1614 fu vietata la professione della fede cattolica con un decreto di espulsione di tutti i missionari dal Giappone. Dal 1638 fu attuata una politica di isolamento totale, unica religione ammessa fu il buddhismo. Questo a seguito della rivolta di Shimabara, scoppiata nel 1637, che vide i cristiani giapponesi, per la maggior parte appartenenti alla classe contadina, ribellarsi allo shogun, il quale aveva attuato forti repressioni religiose nei confronti dei cristiani. La rivolta si concluse nel sangue dopo un lungo assedio contro i ribelli nel castello di Hara, dove i ribelli asserragliati furono definitivamente sconfitti. La persecuzione anticristiana si fece ancora più aspra sino al 1850, anno in cui ebbe termine.scorsese
Ma veniamo al film, la trama prende le mosse dal colloquio di tre padri gesuiti, esterrefatti dalla notizia giunta loro dell’apostasia del padre gesuita Cristóvão Ferreira, che in precedenza era stato padre spirituale di due dei tre gesuiti, Sebastião Rodrigues e Francisco Garrpe che sono increduli di tale notizia. Decidono quindi di andare a cercare padre Ferreira per verificare la situazione.
Non abbiamo intenzione di svelare l’intera trama del film, in questa nostra riflessione ci basterà dire l’essenziale, ovvero quali temi, a (altro…)


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E la mia ragione pone domande alla fede
cui la mia ignoranza non sa rispondere.
E vivo all’ombra della Veritá
velato dalla nebbia dei giorni che trascorrono


«Credete allora (e questa parola compendia tutte le altre) allo spirito tra voi. Siete offerti l’uno all’altro come uno spazio indefinito di comprensione, di arricchimento, di sensibilizzazione reciproca. Dunque v’incontrerete soprattutto in una penetrazione e in uno scambio costante di pensieri, affetti, sogni, preghiera. Come ben sapete, solo lì, nello spirito perseguito attraverso la carne, non esistono né sazietà né delusioni né limiti. E, per il vostro amore, solo lì troverete l’aria aperta, il grande sbocco[1]

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E’ con queste parole di Teilhard de Chardin  che voglio qui presentare un libro Il Cuore Comune, che mi ha colpito per l’originalità dell’angolazione con cui affronta un tema, il matrimonio, quale origine della famiglia, con cui l’autore cerca di dare risposte che «vanno nella direzione di svelare nuovamente, con ciò recuperandola, la capacità che la famiglia ed il matrimonio hanno di rendere felice l’uomo»[2].

Ecco un’ anteprima-del-libro-il-cuore-comune  che è presente sul sito delle Edizioni Studio Domenicano qui: http://www.edizionistudiodomenicano.it/Libro.php?id=901

Buona lettura

 

[1] Pierre Teilhard de Chardin, In occasione del Matrimonio di Odette Bacot e di Jean Teilhard d’Eyry, 14 Giugno 1928 presente in: Pierre Teilhard de Chardin, SULLA FELICITA’, Queriniana, Brescia, 20045, p.55

[2] Cosimo Luigi Russo, IL CUORE COMUNE – Omaggio alla vita matrimoniale, ESD, Bologna, 2012, p.11

 


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«Che cosa dunque significa: modo del sapere? Che cosa, se non che tu sappia con quale ordine, con quale studio e con quale fine è necessario conoscere le cose? Con quale ordine: per prima ciò che più rapidamente conduce alla salvezza; con quale studio: per più ardentemente ciò che con maggiore forza conduce all’amore; con quale fine: non per una gloria vana, per curiosità o qualcosa di simile, ma unicamente per la tua o del prossimo edificazione.

Ci sono, infatti, alcuni che vogliono sapere solo per il gusto di sapere: e ciò è turpe curiosità. Ancora, ci sono alcuni che vogliono sapere per apparire sapienti: e ciò è turpe vanità … E ci sono anche alcuni che vogliono sapere per vendere la propria scienza, per esempio a motivo di denaro o di onori: e ciò è turpe profitto. Ma ci sono anche quelli che desiderano sapere per edificare: ed è carità. Come vi sono coloro che desiderano sapere per essere edificati: ed è prudenza»

(Super Canticorum, 36, III in San. Bern. Op., II, pp. 5-6)