Uno dei concetti più conosciuti dell’opera di Karl Marx e Friedrich Engels è il concetto di ‘alienazione’ che viene fuori dall’analisi che gli autori fecero del loro periodo storico che vedeva l’espandersi dell’industrializzazione nel passaggio e superamento della produzione artigianale, producendo quel fenomeno sociale descritto come proletariato e la relativa forma di alienazione che derivava dalla separazione fra la produzione e la proprietà (l’operaio produce beni che non gli appartengono), questo fa sì che il frutto del proprio lavoro è nelle mani del capitalista, ciò rende la produzione non libera (come quella dell’artigiano) e di conseguenza limita la creatività, rendendo il lavoro ripetitivo (produzione di massa) che vanifica ogni suo sforzo riportandolo sempre allo stesso punto di partenza dopo aver terminato il ciclo di lavoro (Marx userà come esempio il mito di Sisifo). Anche se il più evidente effetto di alienazione Marx lo rileva nel rapporto fra operaio e capitalista e nel relativo rapporto di sfruttamento finalizzato al profitto.
Ma sarà invece Herbert Marcuse ad estendere il concetto di alienazione oltre il rapporto capitalistico di produzione alla società industriale e tecnologica in sé. Nel suo ‘L’uomo a una dimensione’1 Marcuse rileva come l’alienazione nasca dalla mancata realizzazione di sé dovuta alle regole esterne imposte dalla società ‘industriale’, a cui non sono soggetti solo gli operai, ma l’intera filiera produttiva, che si comporta come un enorme ingranaggio, composto da regole, al quale l’uomo non può sfuggire e che non lasciandogli margini di libertà lo rende asservito a regole che lo schiacciano rendendolo soggetto alla legge di necessità, senza più libertà, così come chiaramente indicato nell’incipit del primo capitolo della sua opera:
“Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata, segno di progresso tecnico“2
Ed è una vera sorpresa trovare verso la fine del volume di Hans Küng ‘Essere Cristiani’3 un paragrafo dall’anonimo titolo “Ciò che in definitiva non conta”4 in cui l’analisi dell’alienazione viene ulteriormente sviluppata, ma, entrando maggiormente nel cuore della sua essenza contemporanea dove l’autore riesce a cogliere il tratto essenziale dell’alienazione non nel rapporto viziato proletario-capitalista come inteso da Marx ed Hengels, né nel rapporto succube delle regole che lo rendono soggetto alla legge di necessità come inteso da Marcuse, ma attraverso la lettura del tanto criticato volume di Max Weber ‘L’etica protestante e lo spirito del capitalismo’5 seppur rimanendo fuori dalla linea di ricerca weberiana, comunque da esso prendendo spunto per trovare una legge che forse era sottesa in maniera inconsapevole nel testo di Weber, e che sembra essere abbozzata proprio nelle parole finali del testo di Weber quando dice:
«In ogni caso il capitalismo vittorioso non ha più bisogno di questo sostegno, da quando poggia su una base meccanica. Sembra che impallidisca definitivamente anche la rosea psicologia della sua ridente erede – della cultura illuministica –, e come uno spettro di contenuti religiosi di una fede passata si aggira, nella nostra vita, il pensiero del «dovere professionale». Dove l’«adempimento del dovere professionale» non può essere messo direttamente in rapporto con i sommi valori spirituali della civiltà e cultura – o, viceversa: anche sul piano soggettivo non deve essere sentito semplicemente come una coazione economica –, oggi l’individuo per lo più rinuncia comunque a interpretarlo. Nel paese dove si è sommamente scatenata, negli Stati Uniti, la ricerca del profitto si è spogliata del suo senso etico-religioso, e oggi tende ad associarsi con passioni puramente agonali, competitive, che non di rado le conferiscono addirittura il carattere dello sport.»6
Quelle parole finali come “agonali” e “competitive” sembrano aver dato lo spunto a Küng per oltrepassare lo studio di Weber con la sua teoria delle “prestazioni personali” che sono ormai dilaganti nel mondo globalizzato dell’economia e della finanza dei nostri tempi.
Ma lasciamo dire all’autore:
«Nella vita moderna contano i risultati che si conseguono. Non si domanda tanto: «Chi è il tale?», quanto piuttosto: «Che cosa fa?», con ciò intendendo la sua professione, il suo lavoro, le sue realizzazioni, la posizione che occupa e il prestigio di cui gode nella società. È questo che conta. Si tratta di una problematica meno ovvia di quanto non sembri.
Tipicamente «occidentale» sebbene oggi interessi anche i paesi socialisti del blocco orientale (Secondo Mondo) e i paesi in via di sviluppo del Terzo Mondo, ha il suo «humus» originario in quel Primo Mondo (Europa Occidentale e America Settentrionale) dove si è sviluppata la moderna società industriale. Soltanto qui esisteva da tempo una scienza razionalmente organizzata con esperti altamente specializzati. Soltanto qui un lavoro razionalmente organizzato in libere imprese sulla base della produttività. Soltanto qui una vera e propria borghesia e una razionalizzazione specifica dell’economia e della stessa società in generale secondo una nuova mentalità economica. Perché mai soltanto qui? Nella sua classica analisi, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1905), da noi già citata, Max Weber ha indagato a fondo questo processo: La razionalizzazione occidentale venne senz’altro stimolata da determinate condizioni economiche (fin qui aveva ragione Marx). Tuttavia (osserva giustamente Weber) non si sarebbe giunti alla razionalizzazione economica occidentale senza una nuova mentalità economica spiccatamente razionale-pratica, radicata in un ben preciso costume religioso: Furono precisi contenuti di fede e precise concezioni del dovere a generare e introdurre decisamente questo nuovo spirito nella vita e nell’economia. In che modo? Le radici del fenomeno risalgono – fatto abbastanza sorprendente – a quei problemi del tempo della Riforma che oggi si dice non siano più attuali: Applicando con involontaria coerenza la rigida dottrina calvinistica di una duplice elezione (predestinazione degli uni alla beatitudine, degli altri alla dannazione), si sottolineò nelle Chiese influenzate da Calvino il valore della «santificazione», delle opere nella vita quotidiana, del lavoro professionale come compimento dell’amore del prossimo, nonché il valore del successo di questa attività – il tutto inteso come segno visibile di una positiva elezione alla beatitudine eterna. Fu quindi per motivi religiosi, non razionali, che maturò lo spirito del lavoro assiduo, del successo professionale e del progresso economico: un connubio gravido di conseguenze tra un’intensa religiosità e un senso capitalistico degli affari, rinvenibile in Chiese e sette storicamente importanti, presso i puritani inglesi, scozzesi e americani, tra gli ugonotti francesi, nelle comunità tedesche dei riformatori e dei pietisti.
Quanto più la secolarizzazione si estese ai vari ambiti della vita e quanto più si affermò il sistema economico moderno, tanto più assursero a virtù dell’uomo secolare, dell’uomo responsabile e autonomo operante nella «società industriale», l’attività infaticabile («industria»), la disciplina severa e l’elevato senso di responsabilità. L’«abilità»in tutti i campi divenne la virtù per eccellenza, l’«utilità» il criterio dominante, il «successo» l’obiettivo finale, la «produzione» la legge di questa moderna società della produttività, in cui ciascuno è chiamato a svolgere un suo ruolo particolare (ruolo principale nella professione e per lo più svariaci ruoli secondari).”
L’uomo cerca così, in un mondo e in una società che si sviluppano dinamicamente, di realizzare sé stesso: Diversamente da quanto avveniva nello statico mondo preindustriale, l’auto-realizzazione umana, che resta in ogni caso un traguardo dell’uomo, si fonda su prestazioni personali. Si realizza solo chi realizza qualcosa. E non c’è rimprovero più amaro del sentirsi rinfacciare che non si combina nulla. Lavoro, carriera, guadagno: che cosa ci potrebbe essere di più importante? Industrializzare, produrre, espandersi, consumare a tutti i livelli; sviluppo, progresso, perfezione, miglioramento del tenore di vita sotto ogni possibile rispetto: non è questo il senso della vita? Come giustificare la propria esistenza se non mediante prestazioni personali? I valori economici occupano il vertice della gerarchia dei valori umani, la professione e le capacità professionali determinano lo status sociale, la tensione verso la prosperità e la produzione fa sì che i paesi industriali sfuggano alla stretta di una povertà ancestrale e diano vita a è l’odierna società del benessere. Ma proprio questa mentalità produttivistica, avallata da tanti successi, costituisce in definitiva una seria minaccia per l’umanità dell’uomo: uomo che corre il rischio non solo di perdere di vista i valori più alti e il senso generale della vita, ma anche di essere stritolato dai meccanismi, dalle tecniche, dalle forze e dalle organizzazioni anonime che formano il tessuto di questo sistema. Quanto maggiori sono il progresso e la perfezione tecnologica, tanto più accentuato è l’inquadramento dell’uomo nel complicato processo economico-sociale: Una disciplina sempre più rigida stringe l’uomo nella propria morsa. Un’operosità e un impegno sempre più esasperati non gli permettono di recuperare sé stesso. Responsabilità sempre più vaste convogliano tutte le sue energie verso l’espletamento dei suoi compiti professionali. Le maglie sempre più strette della rete di norme tessuta dalla stessa società lo avviluppano e condizionano implacabilmente non solo nella sua professione e nel suo lavoro, ma anche nel suo tempo libero, nei suoi svaghi, nelle sue vacanze e nei suoi viaggi. Il traffico di una qualsiasi città, con migliaia di divieti, obblighi, segnali, cartelli indicatori (tutto un codice di cui in passato non c’era bisogno e a cui ora ci si deve scrupolosamente attenere se si vuole sopravvivere), è uno specchio fedele di questa moderna vita quotidiana, da mattino a sera organizzata, disciplinata, burocratizzata e presto anche computerizzata. In tutti i settori della vita umana dilaga un nuovo legalismo secolare tale da eccedere la competenza del singolo giurista e da fare impallidire, al confronto, il legalismo (religioso) veterotestamentario e l’ermeneutica degli interpreti di quel diritto.
Quanto più l’uomo soggiace alle regole di questo legalismo, tanto maggiore risulta la sua perdita di spontaneità, di iniziativa, di autonomia, tanto più ristretto si fa il margine residuo per il dispiegarsi della sua umanità. Sovente si ha la sensazione che siano gli uomini a esistere in funzione delle leggi (paragrafi, disposizioni, norme d’azione e di costume), non le leggi in funzione degli uomini. E quanto più l’uomo si smarrisce in questa ragnatela di sollecitazioni, istruzioni, disposizioni e controlli, tanto più tenacemente vi si aggrappa per sentirsene in qualche modo confermato. La vita intera si riduce a una «competizione» estenuante e logorante, scandita da continui controlli della propria efficienza: dal campo professionale a quello sessuale la sola preoccupazione è quella di non veder calare il proprio rendimento, anzi possibilmente di elevarlo. Si è prigionieri, in sostanza, di un circolo micidiale: le prestazioni creano condizionamenti ai quali si crede di poter sfuggire con nuove prestazioni, mentre il tutto si risolve in una grande perdita di libertà.
L’uomo sperimenta così in versione moderna quella che Paolo definì la maledizione della legge: La vita moderna obbliga l’uomo a produrre, progredire, ottenere successo. Nella sua esistenza egli deve continuamente giustificarsi: non più, come in passato, davanti al tribunale di Dio, ma davanti al tribunale del suo ambiente, di fronte alla società e di fronte a sé stesso. E in questa società della produttività e del rendimento ci si può giustificare solo mediante la propria produttività, il proprio rendimento: è solo in virtù delle prestazioni personali che si è qualcuno, che si conserva il proprio posto nella società, che si acquisisce il necessario prestigio. Ci si può affermare solo documentando la propria efficienza.
Il pericolo che l’uomo, sotto l’enorme pressione di un obbligo che diventa una nevrosi, delle aspettative che il suo ruolo suscita nell’ambiente circostante e di una concorrenza che minaccia di travolgerlo, si lasci dirigere solo dall’esterno, il pericolo che, assorbito dal suo ruolo, perda la propria identità, è concreto: L’uomo rischia di essere ormai solo un manager, un businessman, uno scienziato, un funzionario, un tecnico, un lavoratore, un professionista e non più… un uomo! «Diffusione di identità» (E.H. Erikson) nei diversi ruoli, e quindi crisi e perdita di identità: l’uomo non è più sé stesso, è vittima di un’alienazione. Dovendo imporsi con le proprie forze, contro gli altri e perciò a spese degli altri, vive in sostanza per sé solo e di tutti gli altri non si serve che per i suoi fini personali.
Quello che ci si chiede è se per questa via l’uomo possa diventare felice. Se gli altri si lasceranno sfruttare e strumentalizzare in questo modo. Se egli, obbedendo alla legge della prestazione, sia in grado di rispondere a tutte le sollecitazioni che gli vengono continuamente trasmesse. E soprattutto: Se egli possa realmente giustificare la sua esistenza mediante le sue prestazioni. Se con ciò non giustifichi in fondo soltanto il ruolo o i ruoli che è chiamato a svolgere, ma non il suo essere. Se sia realmente quello che è nel suo agire. Si può essere eccellenti manager, scienziati, funzionari o tecnici specializzati, si può svolgere il proprio ruolo in maniera unanimemente giudicata superlativa, e tuttavia fallire miseramente come uomini: Si gira in orbita intorno a sé stessi senza scendere dentro sé stessi. Non ci si accorge neppure che in tutte le proprie prestazioni ci si è perduti, che ci si dovrebbe ritrovare e che non ci si potrà ritrovare se non rientrando in sé stessi. Non è certo con tutte le sue realizzazioni, con tutto il suo agire che l’uomo conquista il suo essere, la sua identità, la sua libertà, la sua personalità, il senso della sua esistenza e la conferma del suo io. Chi mira solo a confermare, a giustificare sé stesso, imposta la sua vita in modo radicalmente sbagliato. Viene in mente il detto evangelico: Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà. E tuttavia, che altro resta se non tentare di confermarsi, di giustificarsi sulla base delle proprie prestazioni?
C’è anche un’altra via. E non è quella dell’inerzia. Né quella dell’aprioristica rinuncia alla prestazione o della repentina abdicazione al proprio ruolo nella società. Si tratta di prendere coscienza del fatto che l’uomo non si esaurisce nella sua professione e nel suo lavoro, che la persona trascende il suo ruolo, che, buone o cattive, le prestazioni sono senz’altro importanti, ma non determinanti. In breve: si tratta di rendersi conto che in definitiva non sono le prestazioni quelle che contano.»7
1Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1999
2Idem, p.15
3Hans Küng, Essere Cristiani, CDE su licenza Arnaldo Mondadori, Milano 1976
4Idem, p.666
5Max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, BUR Rizzoli, Milano 2011
6Idem, p.221
7Hans Küng, Essere Cristiani, op. Cit., pp. 666-670